martedì 22 dicembre 2009


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Il "confronto" è l'unico modo per percorrere la via della "virtù pubblica"

Contro chi evoca Pilato, ricordiamoci di Socrate...

di Antonio Rapisarda

Se lo dice lui, significa che si è intrapresa la giusta strada. Già, se Antonio Di Pietro chiama "Pilato" chiunque osi parlare di un tentativo di dialogo, significa che fare l'esatto contrario è probabilmente la via che può permettere al paese una stagione politica normale.

Perché, in fondo, il leader dell'Idv è estremamente esplicito nella sua concezione dei rapporti politici: «L'unica riforma possibile è mandare a casa Berlusconi».

Ecco tutta la cifra del riformismo in chiave giustizialista. A questo punto è chiaro a tutti chi rema per una difficile, ma più che mai urgente, convergenza istituzionale e parlamentate su un minimo comun denominatore - i tanti nel Pdl e nel Pd che dopo l'aggressione al premier Berlusconi hanno compreso che è giunto il tempo del confronto - e chi soffia affinché il fuoco dello scontro diventi un incendio indomabile, cioè l'ex pm e i suoi.

Nei giorni in cui personalità importanti cercano a viso aperto ogni spiraglio possibile per lanciare un segnale di distensione al paese, Di Pietro non trova niente di meglio che riportare il suo surrogato di questione etica sul tavolo del confronto politico: «Denuncio il finto buonismo». Anche la posizione di Walter Veltroni lascia un po' perplessi: la sua critica al tentativo di apertura di Massimo D'Alema sembra essere in controtendenza con la sua storia più recente. Non era stato lui, nel momento della sua investitura come leader del Partito democratico, a parlare di legittimazione dell'avversario e non di odio? Che abbia smarrito la vocazione soft? Strani giochi fa il tempo, anche se è più probabile che ciò si innesti in un confronto-scontro con il suo rivale storico D'Alema.

Non sorprende invece il non possumus dettato dalle parti di Repubblica che sulla delegittimazione morale del centrodestra e del premier ha imbastito una campagna infinita e per cui accettare il dialogo significherebbe sconfessare prima di tutto se stessa.

Probabilmente, oltre agli sfascisti cronici, chi teme il dialogo lo fa perché consapevole di perdere così l'unico brand (l'opposizione "totale") che gli permette una qualche sopravvivenza politica e una legittimazione di piazza. Probabilmente sono gli stessi che aborrono il bipolarismo virtuoso perché lo intendono come la prosecuzione perpetua della guerra civile. Sono quelli che non hanno a cuore il fatto che il paese intende reagire all'impasse. Sono quelli che Paolo Franchi sul Corriere della Sera definisce spinti da una «concezione selvatica del bipolarismo e del maggioritario per la quale la contesa politica potrà dirsi conclusa solo se e quando l'avversario sarà stato, una volta per tutte, sgominato».

Dinanzi a chi pensa questo, è altrettanto semplice capire con chi invece bisogna stare. Preferiamo credere insomma che, a dispetto di chi teme atteggiamenti pilateschi ogni volta che si pronunci la parola dialogo, sia l'etica socratica a spingere chi crede che la condivisione di qualcosa sia un dato da cui ripartire. Perché in politica, proprio come insegnano gli antichi greci, il confronto è l'unica strada per percorrere la via della virtù pubblica. L'etica, dunque, è quella di chi non si sottrae mai al dialogo. E lo accetta, nonostante il "giudizio" degli uomini, fino alle estreme conseguenze. Proprio come ha insegnato Socrate.

21 dicembre 2009

da Ffnewsmagazine

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