LA CASSAZIONE ANNULLA LE MULTE
Dalle recensioni dello STUDIO CARBONE & ASSOCIATI
Corte di Cassazione ordinanza n. 29427 depositata il 24 ottobre 2023
sanzioni statuite da regolamenti Comunali – rispetto del principio di legalità e principio di tipicità – Nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, l’illegittimità del provvedimento opposto per violazione del principio di legalità, di cui all’art. 1 della l. n. 689 del 1981, è rilevabile d’ufficio, giacché tale principio costituisce cardine dell’intero sistema normativo di settore ed ha valore ed efficacia assoluta, essendo direttamente riferibile alla tutela di valori costituzionalmente garantiti (artt. 23 e 25 Cost.)
La Corte osserva
Roma Capitale, sulla base dei verbali degli ispettori AMA inflisse a D.B. s.r.l. e a R.B., in proprio e in qualità di amministratore del Condominio di piazza Pantaleo, 3, le sanzioni di € 200,00, € 200,00, 300,00 ed € 300,00, a titolo di sanzioni amministrative per la violazione degli artt. 18 e 60 della delibera comunale n. 105 del 2005, costituente il regolamento per la gestione dei rifiuti urbani, per avere gli ispettori AIMA verificato l’erroneo inserimento nei mastelli dei rifiuti differenziati.
Il competente Giudice di pace rigettò l’opposizione dei sanzionati.
Avverso la decisione di primo grado i soccombenti proposero impugnazione, che il Tribunale disattese.
In particolare, gli appellanti avevano prospettato l’intervenuta prescrizione, l’insussistenza delle violazioni contestate, la mancanza dell’elemento soggettivo dell’illecito, l’incongruità della sanzione inflitta.
Avverso la decisione d’appello i sanzionati ricorrono sulla base di quattro motivi.
Roma Capitale resiste con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.
1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 14, co. 7 e 62 del regolamento comunale n. 105/2005, nonché dell’art. 6, co. 11 del d. lgs. n. 150/2011, della l. 689/1981 e degli artt. 2697 cod. civ., 112, 113 e 116 cod. proc. civ., adducendo assenza di obbligo di custodia in capo al Condominio dei contenitori raccogli rifiuti, mancando il presupposto della diretta assegnazione; contenitori che non potevano affatto considerarsi di proprietà del Condominio. Mancava, pertanto, l’obbligo ella custodia, la cui sussistenza, in ogni caso, sarebbe stato onere dell’autorità amministrativa dimostrare.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ., 112, 113, 115 e 116 cod. proc. civ., 62 del regolamento comunale n. 105/2005 e della l. n. 689/1981.
Affermano i ricorrenti che la sanzione sarebbe stata appiccata sulla base d’una impropria responsabilità oggettiva, non avendo il Condominio l’obbligo di custodia dei contenitori, imputando agli esponenti di essere in colpa per il mero fatto di non avere impedito il fatto altrui (il soggetto che aveva posto in essere la condotta sanzionata era rimasto ignoto).
3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 342, 343, 112 cod. proc. civ. e 65 del regolamento comunale, nonché dell’art. 6, co. 12, d. lgs. n. 150/2011, assumendo che il giudice d’appello aveva omesso di pronunciarsi in ordine <<alla censura formulata dal Condominio sulla violazione connessa all’erronea applicazione delle tabelle di cui all’art. 65 del regolamento comunale che, per la fattispecie di cui agli articoli 17 e 18 del medesimo provvedimento, fissa la sanzione minima in euro 50,00 e quella massima in euro 300,00>>.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti giudicano erronea e/o falsamente applicato l’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, per avere la sentenza impugnata dato atto della sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
5. Preliminarmente la Corte ritiene doversi verificare di ufficio il rispetto del principio di legalità e di tipicità della norma sanzionatoria rappresentata dall’art. 14, comma 7, del regolamento del Comune di Roma n. 105 del 2005, la cui violazione, peraltro è anche dedotta dalla parte ricorrente nei primi due motivi di ricorso, sia pure in modo non precipuamente articolato e con scarso rigore in ordine all’inquadramento delle norme violate. Infatti, con le censure proposte con i suddetti motivi, sostanzialmente si sostiene la non sanzionabilità in astratto della condotta contestata ai ricorrenti.
Ad ogni modo, al di là della interpretazione dei motivi nel senso sopra indicato, deve farsi applicazione del seguente principio di diritto: Nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, l’illegittimità del provvedimento opposto per violazione del principio di legalità, di cui all’art. 1 della l. n. 689 del 1981, è rilevabile d’ufficio, giacché tale principio costituisce cardine dell’intero sistema normativo di settore ed ha valore ed efficacia assoluta, essendo direttamente riferibile alla tutela di valori costituzionalmente garantiti (artt. 23 e 25 Cost.), sicché la sua attuazione non può rimanere, sul piano giudiziario, affidata alla mera iniziativa dell’interessato, ma deve essere garantita dall’esercizio della funzione giurisdizionale (ex plurimis Sez. 2, n. 4962 del 2020; Sez. 2, n. 17403 del 2008, conf. Sez. 2, n. 35791 del 2021, non massimata).
Si è osservato, infatti, che, se pure il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa è strutturato dalla legge, nelle sue linee essenziali, in conformità al processo civile ordinario ed è pertanto retto dal principio della domanda, con conseguente divieto per il giudice di pronunciarsi su motivi di opposizione o su eccezioni non dedotte dalle parti, tale principio, tuttavia, non può essere applicato in maniera acritica ed automatica, ma deve essere coordinato con i principi informatori della disciplina posta dalla legge in materia di sanzioni amministrative, in particolare con il principio di legalità espresso dall’art. 1 della l. n. 689 del 1981, in forza del quale nessuno può essere assoggettato a sanzione amministrativa se non in forza di una legge che sia in vigore al momento in cui ha commesso il fatto. Di conseguenza la sua attuazione non può rimanere, sul piano giudiziario, affidata alla mera iniziativa dell’interessato, ma deve essere garantita dall’esercizio della stessa funzione giurisdizionale, con obbligo del giudice di rilevare d’ufficio la sua eventuale violazione.
Sotto altro e concorrente profilo, uno dei molti corollari che possono farsi discendere dal principio di legalità può essere espresso con l’affermazione secondo cui lo stesso potere di irrogazione della sanzione amministrativa deve trovare il suo fondamento giuridico ineliminabile nella disposizione di legge che vieta e punisce la condotta sanzionata. Il che, mutando solo prospettiva, equivale a dire che l’indagine in ordine alla esistenza e vigenza della norma di legge che vieta e quindi sanziona il comportamento ascritto al ricorrente nel provvedimento amministrativo investe il tema della sussistenza, in generale, dello stesso potere sanzionatorio e, quindi, del fondamento giuridico stesso del provvedimento opposto e non si risolve, pertanto, nell’accertamento di una mera causa di illegittimità dell’atto. Ne è prova la considerazione che il giudice, quando pronuncia sulla fondatezza o infondatezza dell’opposizione, non può non pronunciarsi – ovviamente in via del tutto implicita laddove la questione non sia stata espressamente sollevata – anche sulla esistenza e sull’applicazione della norma che sanziona quel determinato comportamento e che, specularmente, gli stessi motivi di opposizione investono sempre anche il tema dell’accertamento dell’esistenza della norma di legge su cui l’autorità che ha adottato l’ordinanza ingiunzione giustifica la sanzione irrogata. L’indagine circa la esistenza della norma di legge sanzionatoria costituisce pertanto un presupposto – logico e giuridico insieme – implicito di qualsiasi decisione giudiziaria in materia di opposizione a sanzione ed è operazione manifestamente diversa da quella che si svolge ai fini dell’accertamento dei vizi del provvedimento sanzionatorio, la quale, risolvendosi nella verifica della presenza di cause di difformità del provvedimento opposto rispetto allo schema delineato dalla legge, presuppone pur sempre la sussistenza di un modello legale cui ricondurre il contenuto del provvedimento.
5.1. Inoltre, deve precisarsi che, trattandosi di una questione di puro diritto non è necessario stimolare il contraddittorio. Infatti, l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, non riguarda le questioni di diritto ma quelle di fatto (ex plurimis Sez. 2, n. 1617 del 2022).
5.2. Ciò premesso, venendo al caso di specie, deve osservarsi che la condotta sanzionata è prevista dagli artt. 14, comma 7, e 60 del regolamento del Comune di Roma adottato con deliberazione n.105 nella seduta del 12 maggio 2005.
Il suddetto regolamento è stato emanato in virtù di quanto stabilito dall’art. 21 del d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/56/CEE sui rifiuti, 91/698/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio) che testualmente prevede che: «i Comuni disciplinano la gestione dei rifiuti urbani con appositi regolamenti che, nel rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed economicità, stabiliscono: “a) le disposizioni per assicurare la tutela igienico-sanitaria in tutte le fasi della gestione dei rifiuti urbani; b) le modalità del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani; c) le modalità del conferimento, della raccolta differenziata e del trasporto dei rifiuti urbani al fine di garantire una distinta gestione delle diverse frazioni di rifiuti e promuovere il recupero degli stessi; d) le norme atte a garantire una distinta ed adeguata gestione dei rifiuti urbani pericolosi, e dei rifiuti da esumazione ed estumulazione di cui all’articolo 7, comma 2, lettera f); e) le disposizioni necessarie a ottimizzare le forme di conferimento, raccolta e trasporto dei rifiuti primari di imballaggio in sinergia con altre frazioni merceologiche, fissando standard minimi da rispettare; f) le modalità di esecuzione della pesata dei rifiuti urbani prima di inviarli al recupero e allo smaltimento; g) l’assimilazione per qualità e quantità dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani ai fini della raccolta e dello smaltimento sulla base dei criteri fissati ai sensi dell’articolo 18, comma 2, lettera d) del D. Lgs. n. 22/97».
L’art. 14, comma 7, del regolamento del Comune di Roma n. 105 adottato con delibera del 12 maggio 2005 a sua volta prevede che: «È fatto obbligo agli utenti o all’amministratore del condominio di custodire, mantenere e utilizzare correttamente i contenitori assegnati rispettivamente all’utenza o al condominio con le corrette modalità e in luoghi idonei o in ambienti a ciò destinati».
5.3. Questa Corte, con orientamento consolidato, al quale il Collegio intende dare continuità, ha affermato che: «L’art. 1 l. n. 689 del 1981, avendo recepito anche per le sanzioni amministrative il principio di legalità, impedisce che sanzioni siffatte possano essere direttamente comminate da disposizioni contenute in fonti normative subordinate, quale un regolamento comunale o un’ordinanza del Sindaco. È stato chiarito che il principio di legalità fissato dall’art. 1 della l. 24 novembre 1981, n. 689 si concreta in un regime di “riserva assoluta” di legge, ma l’efficacia di tale riserva – a differenza della riserva di legge assoluta prevista con riguardo all’illecito penale direttamente dall’art. 25 Cost. – non è di rango costituzionale in quanto la materia delle sanzioni amministrative sul piano costituzionale è riconducibile all’art. 23 Cost., che stabilisce solo una riserva di legge di natura relativa; essa opera sul piano della forza di legge ordinaria, con l’effetto che senza una legge che deroghi al suddetto art. 1 non è possibile l’introduzione di sanzioni amministrative mediante fonti secondarie, mentre questa possibilità ben può essere ammessa da una legge ordinaria, che la preveda in via generale o per singoli settori (Sez. 1, n. 12367 del 6 novembre 1999). Come affermato di recente dalla Corte costituzionale, con sentenza del 18 gennaio 2021, n. 5, e con sentenza n. 134 del 2019, il potere sanzionatorio amministrativo – che il legislatore regionale ben può esercitare, nelle materie di propria competenza – resta comunque soggetto alla riserva di legge relativa [di cui] all’art. 23 Cost. in quanto anche rispetto al diritto sanzionatorio amministrativo – di fonte statale o regionale che sia – si pone, in effetti, un’esigenza di predeterminazione legislativa dei presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio, con riferimento sia alla configurazione della norma di condotta la cui inosservanza è soggetta a sanzione, sia alla tipologia e al quantum della sanzione stessa, sia – ancora – alla struttura di eventuali cause esimenti. E ciò per ragioni analoghe a quelle sottese al principio di legalità che vige per il diritto penale in senso stretto, trattandosi, pure in questo caso, di assicurare al consociato tutela contro possibili abusi da parte della pubblica autorità (sent. n. 32 del 2020, punto 4.3.1 del “considerato in diritto”): abusi che possono radicarsi tanto nell’arbitrario esercizio del potere sanzionatorio, quanto nel suo arbitrario non esercizio. Questa esigenza è stata, del resto, già posta in evidenza da una risalente pronuncia del giudice delle leggi, che ha altresì ricollegato espressamente la ratio della necessaria «prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione)» delle sanzioni amministrative al principio di imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., oltre che alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. (sent. n. 447 del 1988).
Tutto ciò impone che a predeterminare i presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio sia l’organo legislativo (statale o regionale), il quale rappresenta l’intero corpo sociale, consentendo anche alle minoranze, nell’ambito di un procedimento pubblico e trasparente, la più ampia partecipazione al processo di formazione della legge (sent. n. 230 del 2012); mentre tale esigenza non può ritenersi soddisfatta laddove questi presupposti siano nella loro sostanza fissati da un atto amministrativo, sia pure ancora di carattere generale.
D’altra parte, la natura di riserva relativa di legge «non può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad una prescrizione normativa “in bianco” […], senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini» (Corte cost., sent. n. 115 del 2011, e numerosi precedenti ivi richiamati).
Tale principio implica dunque che – laddove la legge rinvii a un successivo provvedimento amministrativo generale o ad un regolamento – sia comunque la legge stessa a definire i criteri direttivi destinati a orientare la discrezionalità dell’amministrazione (sent. n. 174 del 2017; in senso analogo, sentt. n. 83 del 2015 e n. 435 del 2001) (Sezione II civile, n. 19696 del 17 giugno 2022).
5.4. Tutto ciò premesso sul piano generale, venendo al caso in esame, come si è detto, la fonte attributiva del potere regolamentare dei Comuni nella materia della gestione dei rifiuti urbani nell’anno di entrata in vigore del regolamento del Comune di Roma (2005) era l’art. 21 del lgs. n. 22 del 1997. Tale norma, tuttavia, non contemplava la possibilità, né direttamente né indirettamente, nell’ambito della raccolta differenziata di cui alla lettera c) (modalità del conferimento, della raccolta differenziata e del trasporto dei rifiuti urbani al fine di garantire una distinta gestione delle diverse frazioni di rifiuti e promuovere il recupero degli stessi) di introdurre una sanzione per la violazione dell’obbligo degli utenti o dell’amministratore del condominio di custodire, mantenere e utilizzare con le corrette modalità e in luoghi idonei o in ambienti a ciò destinati i contenitori loro assegnati.
Nella specie manca la fonte primaria attributiva del potere sanzionatorio limitatamente a questa singola ipotesi particolare.
D’altra parte, deve evidenziarsi anche che la fonte regolamentare, come sopra riportata (art. 14, comma 7, regolamento comunale), è del tutto generica e priva di contenuto specifico e tipizzante la condotta sanzionabile e, dunque, illegittima anche sotto il profilo della tipicità della condotta.
Deve richiamarsi in proposito il costante insegnamento di questa Corte secondo cui il principio di tipicità e di riserva di legge fissato in materia delle sanzioni amministrative dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689, impedisce che l’illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie, senza tuttavia escludere che i precetti della legge, sufficientemente individuati, siano etero- integrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare.
In altri termini il rispetto del principio di tipicità e legalità nell’ambito dell’illecito amministrativo comporta che la fattispecie dell’illecito e la relativa sanzione non possono essere introdotti direttamente da fonti normative secondarie, pur ammettendosi che i precetti della legge, se sufficientemente individuati, possano essere integrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare (Sez. 2, n. 7371/2009).
La copertura legislativa dell’atto impugnato non può essere rinvenuta negli artt. 7 e 7-bis del d.lgs. n. 267 del 2000. Infatti, l’art. 7 del d.lgs. n.267 del 2000 prevede che il comune e la provincia adottano regolamenti nelle materie di propria competenza nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dello statuto. Invece, come si è detto, il potere regolamentare attribuito dall’art. 21 non ricomprendeva né direttamente né indirettamente quello di prevedere in capo a soggetti privati, quali gli utenti e gli amministratori di condominio, il più volte citato obbligo di custodia e corretto utilizzo dei contenitori in luoghi di proprietà privata.
Inoltre, l’art. 7-bis d.lgs. n. 267 del 2000, richiamato all’art. 64 del medesimo regolamento, prevede una diversa sanzione pecuniaria da applicarsi solo in via residuale “salvo diversa disposizione di legge”, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali. Infatti, tale norma indica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro, mentre il regolamento del Comune di Roma ha introdotto una sanzione da 50 a 300 euro per il mancato adempimento agli obblighi di cui al comma 7 dell’art. 14, oggetto della contestazione in esame.
Infine, deve evidenziarsi che questa Corte ha già avuto modo di precisare che: l’amministratore condominiale non è responsabile, in via solidale con i singoli condomini, della violazione del regolamento comunale concernente l’irregolare conferimento dei rifiuti all’interno dei contenitori destinati alla raccolta differenziata collocati all’interno di luoghi di proprietà condominiale, potendo egli essere chiamato a rispondere verso terzi esclusivamente per gli atti propri, omissivi e commissivi, non potendosi fondare tale responsabilità neanche sul disposto di cui all’art. 6, della l. n. 689 del 1981, avendo egli la mera gestione dei beni comuni, ma non anche la relativa disponibilità in senso materiale (Sez. 2 – , Sentenza n. 4561 del 14/02/2023, Rv. 666879 – 01).
6. La Corte, pertanto, decidendo sul ricorso, previa disapplicazione del regolamento per la gestione dei rifiuti del Comune di Roma n. 105 del 2005, limitatamente al combinato disposto degli artt. 14, comma 7, e 64 e 65 nella parte in cui sanzionano con la somma da € 50 a € 300 la condotta degli utenti o dell’amministratore di condominio che non rispettano l’obbligo di custodire, mantenere e utilizzare correttamente i contenitori loro assegnati con le corrette modalità e in luoghi idonei o in ambienti a ciò destinati, cassa la sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art.384 c.p.c. annulla le determinazioni dirigenziali opposte.
7. Considerata la peculiarità e la novità della questione trattata, le spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità vanno interamente compensate.
P.Q.M.
decidendo sul ricorso, e nel merito, cassa la sentenza impugnata e, accolta l’opposizione proposta dai ricorrenti, annulla le determinazioni dirigenziali opposte; compensa per intero le spese legali dei due gradi di merito e del giudizio, di cui all’art. 1 della l. n. 689 del 1981, è rilevabile d’ufficio, giacché tale principio costituisce cardine dell’intero sistema normativo di settore ed ha valore ed efficacia assoluta, essendo direttamente riferibile alla tutela di valori costituzionalmente garantiti (artt. 23 e 25 Cost.)
Che dire a questo punto ?
L'unica soluzione per colpire i responsabili di errori nella differenziata è quella di fornire i residenti di buste tracciabili; io non sono molto intelligente, ma ci sono arrivato.
CI ARRIVERANNO ANCHE GLI AMMINISTRATORI ?