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L’economia russa è in crisi?
di Simone Mesisca
Le recenti schermaglie diplomatiche
intercorse fra Washington e Mosca
hanno nuovamente posto sotto
l’attenzione dei media lo stato
dell’economia russa.
Martedì 23 settembre, poco dopo
la fine del suo discorso presso
l’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite, il Presidente americano Donald
Trump ha pubblicato un messaggio sui
social in cui affermava che «dopo aver
conosciuto e compreso appieno la
situazione militare ed economica
dell’Ucraina e della Russia e
dopo aver visto i problemi
economici che sta causando
alla Russia, penso che l’Ucraina,
con il sostegno dell’Unione Europea,
sia in grado di combattere e
riconquistare tutta l’Ucraina nella sua
forma originale».
Il Presidente americano ha anche fatto
riferimento alle «lunghe code che rendono
impossibile fare benzina», e a come
«tutti i soldi dei cittadini vengano spesi
nella guerra contro l’Ucraina».
Rispondendo a questa e ad altre
affermazioni, il portavoce del Presidente russo,
Dmitri Peskov, ha sottolineato che nonostante
alcuni «punti di tensione»
associati alle sanzioni, «la Russia mantiene
la sua resilienza e la sua stabilità macro-
economica».
Più duro l’ex Presidente, nonché vicepresidente
del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Dmitri
Medvedev, che ha accusato Trump di
«vagare in una realtà alternativa», in cui
c’è «la vittoria definitiva di Kiev, il ritorno
ai confini precedenti, l’economia militare fallimentare
della Russia, le code per la
benzina e le ‘tigri di carta’».
A più di tre anni e mezzo dall’inizio
della guerra in Ucraina sorge quindi
spontanea la domanda sullo stato
dell’economia russa. Il conflitto
prolungato e le sanzioni sempre più
stringenti hanno messo in ginocchio
il Cremlino, o a ragione Peskov e la
Russia «mantiene la sua resilienza
e stabilità»? E se sì, per quanto ancora?
Lo stato dell’economia russa
L’analisi dei principali indicatori macro-
economici russi per il 2025 rivela un’
economia che mostra ormai
chiaramente i segni di un rallentamento
significativo della crescita rispetto
agli ottimi risultati dei due anni precedenti,
con un’inflazione che, seppur in diminuzione,
rimane ancora molto alta.
Ciononostante, alcuni indicatori, come il
deficit di budget e il debito pubblico,
mostrano una Russia molto più in salute
rispetto alla maggior parte dei Paesi occidentali.
La crescita del Pil, che aveva registrato un robusto
4,3% nel 2024, si è drasticamente ridotta nell’anno
corrente. Il Ministero dell’Economia ha rivisto al
ribasso le previsioni di crescita per il 2025 dal 2,5%
inizialmente previsto all’1,5%, mentre i dati trimestrali
confermano questa tendenza negativa, con una
crescita dell’1,4% nel primo trimestre e dell’1,1%
nel secondo.
L’inflazione rappresenta ormai dal 2022 uno dei
problemi più pressanti per l’economia russa.
Anche se i picchi dell’aprile 2022, quando raggiunse
il 22% sono ormai lontani, nel 2025 l’inflazione è
scesa raggiungendo l’8,1% in agosto, rimanendo però ben al
di sopra del target del 4% fissato dalla Banca Centrale.
Il Ministero dell’Economia ha rivisto al ribasso le previsioni inflazionistiche per la fine del 2025 al 6,8%, rispetto al
7,6% previsto ad aprile, mentre si attende il ritorno
al target del 4% solo nel 2026.
Questa persistente pressione inflazionistica ha costretto
la Banca Centrale a mantenere una politica monetaria
restrittiva, con conseguente contrazione della crescita
economica. Il tasso di riferimento, dopo aver raggiunto il livello record del 21% nell’ottobre 2024, è stato
gradualmente ridotto al 17% nel settembre 2025,
rappresentando comunque uno dei tassi più
elevati al mondo tra
le maggiori economie.
Il deficit di bilancio federale ha raggiunto i 4,19
trilioni di rubli (42,7 miliardi di euro) nei primi otto
mesi del 2025, pari all’1,9% del Pil, superando
ampiamente l’obiettivo rivisto dell’1,7% per
l’intero anno. Le proiezioni per il 2025 indicano
un deterioramento del deficit al 2,6% del Pil, il
livello più alto dall’inizio del conflitto, con una
spesa pubblica aumentata del 21,1% rispetto
all’anno precedente mentre le entrate sono
cresciute solo del 3%.
Seppure in peggioramento, questi numeri non
devono trarre in inganno, basti pensare che nel 2024
il deficit di bilancio dei più importanti Paesi europei,
come Germania, Francia, Italia e Polonia, è stato
rispettivamente del -2,8%, -5,8%, -3,4% e -6,6%.
Anche il debito pubblico russo rimane molto
contenuto, attestandosi al 16,4% del Pil nel 2024,
uno dei livelli più bassi tra le economie sviluppate,
seppur con previsioni di incremento al 19% nel 2025
(per confronto, il livello più basso di indebitamento
nell’Ue è dell’Estonia, al 23,6% del Pil).
La spesa militare costituisce la principale voce
di bilancio e la causa primaria degli squilibri fiscali.
Nel 2025, la spesa per la difesa nazionale è stata
fissata a 13,5 trilioni di rubli (137 miliardi di euro),
pari a circa il 6,9% del Pil, rappresentando la quota
più elevata dalla fine della Guerra Fredda.
Le stime dello Stockholm International Peace
Research Institute valutano la spesa militare totale
russa, includendo voci nascoste in altri capitoli
di bilancio, a 15,5 trilioni di rubli, equivalenti al 7,2%
del Pil. Anche per questo, il budget militare per il 2026
è previsto in leggera diminuzione a 12,6 trilioni di
rubli (128 miliardi di euro).
Per far fronte alle crescenti pressioni fiscali, il
governo russo ha annunciato una serie di misure
fiscali, La più rilevante delle quali è l’aumento
dell’Iva dal 20% al 22% a partire dal 1° gennaio
2026. Una decisione che dovrebbe generare circa
1 trilione di rubli aggiuntivi annualmente
(10 miliardi di euro). L’aliquota agevolata del 10%
per i beni di prima necessità come cibo, medicinali
e prodotti per l’infanzia rimarrà invariata.
Uno problema sorto negli ultimi mesi riguarda la “crisi” nella distribuzione del carburante. Dal 28 luglio al
22 settembre 2025, il numero di stazioni di servizio
che vendono benzina è diminuito del 2,6% a livello
nazionale, in particolar modo quelle indipendenti non
legate ai colossi statali del petrolio, con riduzioni
particolarmente severe nel Sud del Paese (-14,2%)
e in Crimea, dove addirittura la metà delle stazioni
di servizio ha smesso di vendere carburante.
Questa situazione è attribuibile alla riduzione della
produzione di benzina di circa il 10% a causa di
manutenzioni programmate e soprattutto degli
attacchi dei droni ucraini negli impianti di
raffinazione.
Secondo il quotidiano russo Kommersant, la
produzione media giornaliera di benzina a gennaio
è stata di 123.600 tonnellate, nei primi 19 giorni di
agosto è stata di 102.200 tonnellate e nella prima
metà di settembre è stata di 110-112 mila tonnellate.
L’economia russa sarà sufficientemente resiliente?
L’outlook economico della Russia per i prossimi anni
è di difficile previsione. Il Ministero dell’Economia russo indica una crescita del Pil limitata all’1,3% nel
2026, seguita da una graduale accelerazione al 2,8%
nel 2027.
Tuttavia, questa ripresa dipende criticamente dalla normalizzazione della
politica monetaria (ovvero dall’abbassamento
dei tassi d’interesse), a sua volta subordinata al
rallentamento dell’inflazione.
D’altra parte, un deterioramento della crisi nel
settore della distribuzione di carburanti potrebbe avere conseguenze significative sull’economia
russa. Se gli attacchi alle raffinerie dovessero
intensificarsi, la conseguente interruzione
prolungata delle forniture di carburante
potrebbe compromettere i trasporti commerciali,
l’agricoltura e l’industria manifatturiera.
C’è poi l’incognita dell’introduzione di sanzioni
secondarie da parte degli Stati Uniti e dell’Europa.
L’applicazione di tariffe elevate da parte di Washington
e Bruxelles sui beni provenienti da Paesi che continuano
ad acquistare petrolio russo potrebbe costringere i principali partner commerciali di Mosca a riconsiderare
i propri rapporti con il Cremlino.
La Cina, che è diventata il principale importatore di
petrolio russo con acquisti record nel 2023, e l’India,
che ha aumentato le proprie importazioni di petrolio russo
di 19 volte dal 2021 al 2024, rappresentano mercati
cruciali per le entrate energetiche russe (circa un quarto delle entrate totali).
Se questi Paesi dovessero ridurre significativamente i
loro acquisti per evitare le sanzioni secondarie, la Russia potrebbe perdere fino a 5 milioni di barili al giorno di
capacità di esportazione, con un impatto devastante
sulle entrate fiscali di Mosca.
Tuttavia, l’implementazione di sanzioni secondarie comporterebbe costi significativi anche per l’Occidente. L’imposizione di tariffe sui prodotti cinesi e indiani
potrebbe provocare un’escalation delle tensioni commerciali, aumentare i prezzi dell’energia e l’inflazione nei Paesi
occidentali e
generare un periodo di forte stagflazione in
tutta l’Europa.
Al momento, dunque, le affermazioni di Peskov in
merito alla «resilienza» e alla «relativa stabilità
macroeconomica» sembrano confermate, ma i
pericoli sono dietro l’angolo: un aggravarsi della
crisi nella distribuzione dei carburanti, il fallimento
nel controllo dell’inflazione, o l’imposizione di alte
tariffe secondarie, e le “crepe economiche” potrebbero notevolmente aggravarsi, mettendo a rischio la
tenuta del sistema.
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