Dichiarazia: quando la politica affoga nelle parole
di Leonardo Varasano
Una delle virtù fondamentali del Principe è quella di saper «aggirare i cervelli delli uomini» con l’astuzia: secondo Machiavelli, chi possiede questa capacità è fatalmente destinato a compiere «gran cose». Qui e ora, i tanti attori e caratteristi della politica italiana - senza distinzioni di appartenenze e schieramenti sembrano possedere una peculiarità simile nella formulazione ma antitetica nella sostanza. Chi più chi meno, leader e gregari, ministri e portavoce, parlamentari e consiglieri cercano tutti di aggirare e raggirare i “cervelli”. Ma all’astuzia - facoltà poliedrica e polimorfa - prediligono le parole. O meglio: il fumo verbale che intorbida i fatti, la fuffa, la logomachia, preferibilmente affidata ai media. La libertà di pensiero diventa pensiero in libertà, veicolato attraverso centinaia di dichiarazioni quotidiane alle quali siamo ormai assuefatti. Dichiaro dunque sono. Tutti dichiarano su tutto, pronti a smentire sé stessi nel giro di poche ore: è la “dichiarazia”, una degenerazione tipica del nostro sistema democratico.
Sguardo languido da imbonitori, sorrisi da spot, faccioni che perforano lo schermo, selve di microfoni, parte mandata a memoria, o quasi: ogni giorno la politica italiana ha la sua vetrina, il suo teatrino; ogni giorno va in scena un repertorio scontato di logorrea insulsa e fastidiosa, frasi fatte e luoghi comuni, banalità e proclami tonitruanti. Di volta in volta, secondo una liturgia consolidata, si alternano molotov verbali ed eufemismi in tripudio, chincaglierie ciarliere e prese di posizione perentorie, attacchi violenti ed equilibrismi.
Si dichiara ovunque, dai talk-show ai programmi sportivi - scenario privilegiato di battibecchi grotteschi - ma il luogo d’elezione di chi vive in campagna elettorale permanente è il telegiornale. Una recente ricerca ha dimostrato che i tiggì Rai dedicano ben il 35% del tempo alla politica: più del doppio della media europea (16,5%). Fin qui nulla di strano, la passione italiana per le fazioni è nota. Meno noto - ma intuibile - è che oltre la metà di quel 35% è coperto da dichiarazioni di ogni tipo. Affermazioni, repliche, smentite, aggiunte, precisazioni, controrepliche, secondo uno stucchevole, ridondante e continuo dejà vu: la parola insegue instancabilmente la sua eco. Conta lo spettacolo. Conta la capacità di narcotizzare gli elettori con l’abuso delle chiacchiere.
In preda al divismo e ad una povertà espressiva disarmante - fatta di zeppe stilistiche, di una fraseologia sconclusionata, di un intercalare orribilmente infarcito di avverbi e perifrasi vuote - la politica italiana evita costantemente le “fughe in avanti”, promuove “giri di vite”, ha quasi sempre “piena fiducia nella magistratura”, si guarda intorno a “360 gradi”, ha “comunque” qualcosa “nel Dna”, condanna la “lottizzazione” della tv di Stato e la “demonizzazione dell’avversario”. All’occorrenza ci si rifugia in formule magiche come “sono stato frainteso e/o strumentalizzato” (che di solito va tradotto con “scusate, l’ho sparata davvero grossa” ) o “questa situazione l’abbiamo ereditata” (e l’eredità di cui si parla è sempre sgradita, ancorché utile per non mantenere gli impegni presi). Tanta faciloneria verbale, tanta (cattiva) retorica scrosciante ha conseguenze di non poco conto. Facilita innanzitutto la mistificazione: favorisce i voltafaccia e i voltagabbana. Nel turbinio delle dichiarazioni non si fa più caso al fondamentale principio di non contraddizione. In una deriva drammaticamente comica, c’è chi riesce a dire tutto ed il suo esatto contrario. Per Mario Portanova - autore di Dichiarazia, Bur 2009: una variegata raccolta di dichiarazioni rilasciate dai politici italiani negli ultimi anni -, il “professionista” di quest’arte è Daniele Capezzone; quello stesso Daniele Capezzone che prima di diventare portavoce di Forza Italia (12 maggio 2008) aveva definito Silvio Berlusconi “fascista”, “pugile suonato”, “mago Do Nascimento”. Umberto Bossi, del resto, non fu da meno quando definì l’attuale premier un “corruttore” appartenente alla “gentaglia” ereditata da Craxi e da Gelli (1995).
Un sottoinsieme speciale di dichiarazioni è quello che contiene le promesse fatte e non mantenute. In quest’ambito, la politica italiana prende Machiavelli alla lettera: l’“io non dico mai quello che credo, né credo mai quel che io dico”, espresso dal fiorentino in una lettera del 1521, trova continua applicazione. La “fede” va tenuta in “poco conto”, l’impegno con gli elettori è, non di rado, mero flatus vocis. Infrangere le promesse, ancorché scolpite nei programmi, è la regola. Cinismo e pragmatismo imperano. Soprattutto a ridosso delle tornate elettorali, i periodi ipotetici della irrealtà diventano progetti fattibili: nelle dichiarazioni si susseguono impegni e buoni propositi, la politica mostra il suo volto onnipotente. Poi fa finta di dimenticare e non mantiene (si pensi, solo per fare un esempio, ai Pacs garantiti dal centrosinistra nel 2005). Il forziere di suggestioni ed illusioni, apertosi ad orologeria, si richiude repentinamente. La politica, insomma, sembra affogare nelle parole (e nelle bugie). Sembra cedere alla sovranità dell’effimero. Sfrondato il ginepraio delle dichiarazioni, svanito l’effetto fumogeno delle chiacchiere, cosa rimane dell’effettivo perseguimento del bonum commune?
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