sabato 10 settembre 2022

PIERO BOLZON FIGURA POCO CONOSCIUTA DEL FASCISMO

 

APPUNTI BIOGRAFICI SU PIERO BOLZON 

Sottosegretario alle colonie dal 1924 al 1927, deputato, consigliere di stato, senatore del regno





Capita nella quotidianità del presente di sentire ripetutamente parlare di

FASCISMO

Io sono nato nel 1948; non ho quindi vissuto quella epoca, ma, vedendo alcune della vestigia di quel periodo ( il quartiere dell' EUR a Roma o la Bonifica Pontina, area in cui ho lavorato per molti anni ) sono sempre stato motivato alla ricerca di testimonianze storiche possibilmente non politicamente etichettate.

Mi chiedo cosa sarebbe potuta essere l' Italia con suo genio innato senza le Leggi Antirazziali del 1938 e la mefitica alleanza con la GERMANIA

Questa Italia fatta di saccenteria e di profonda ignoranza, le cui città sempre più somigliano a latrine ed i cui giovani vivono, e lo dimostrano, privi del minimo rispetto della RES PUBLICA; in questo ben imitati dalla maggioranza dei politici e degli amministratori locali.



Poi un giorno conobbi una persona che, per motivi familiari, si rivelò un'autentica miniera documentale !



Fu lui a parlarmi di BOLZON e della sua influenza nell'epoca fascista


 Nasce a Genova il 24 novembre 1883 da famiglia di patrioti veneti - strettamente legati in amicizia ai Radaelli ai Canzio ai Ricciotti ai Menotti ai Garibaldi ai Tazoli ed ai Bandiera - trasferitasi nella capitale ligure verso la metà di quel secolo per sfuggire alla polizia austro-ungarica . Ha sempre tenuto, in battaglia, in politica, nella vita pubblica e in quella privata, una condotta coraggiosa, leale, misurata, serena e rispettosa della libertà altrui, rivendicando il diritto alla propria, e, al tempo stesso, è stato intransigente riguardo ai principi di moralità pubblica e di coerenza (onestà) intellettuale. Il padre, Ludovico Bolzon (padovano e discendente dell'egittologo Giovanbattista Belzoni che, agli inizi dell'"800", aveva italianizzato il cognome) riprese il cognome veneto, visse poveramente riparando orologi e fu un santo e mite pastore metodista di Padova, stimato per i suoi sermoni e per la sua santità, persino dall'arcivescovo di Genova (quando si dice che l'ecumenismo sarebbe nato soltanto dopo il Concilio Vaticano II°...!). La madre, Tullia Panizza, mantovana fu una fiera e colta “antipapista”, maestra valdese a Torre Pellice; tenne una fitta corrispondenza con Roberto Ardigò che l'aveva in gran stima. Lo zio materno, Mario (il noto anatomista che divenne, sul finire del secolo, deputato socialista a Roma) aiutò il nipote negli studi liceali compiuti al liceo Mamiani. Lì Piero, non potendoseli comprare, copiava a mano (immagini comprese!) i libri di testo sui quali studiava; i libri gli venivano prestati da compagni di studi e giovani amici per la vita quali furono, tra i molti, Mario D'Annunzio, il figlio poco amato del "vate", detto perciò "Gabriellino", e Antonio 2 Muñoz, il precoce e geniale autore, nei primi decenni del '900, dei restauri e dei necessari interventi urbanistici risanatori della Città Eterna. Appena diplomato, nel 1901, si iscrive alla Accademia Militare di Genova dalla quale si congeda appena raggiunto il grado di sottotenente. Negato per la vita sedentaria del burocrate, rifiuta un posto da impiegato nelle Ferrovie italiane. Portato al disegno e alla pittura e dotato di buon talento, ai primi del secolo XX° e appena ventenne, dopo un breve soggiorno a Parigi (lavorando nella bottega di Mutcha), emigra verso l'Argentina dove, a Rosario Santa Fè, vivevano i cugini Radaelli e gli amici garibaldini e dove, in poco tempo e dopo essersi trasferito a Buenos Aires, riesce a guadagnarsi il pane e l'ammirazione di molti come cartellonista pubblicitario (realizzò elegantissimi manifesti per la filiale argentina della casa di moda inglese Harrolds e altre famose case d'allora che producevano sigari e sigarette) e come giornalista e conferenziere, battendosi per risollevare la condizione sociale degli altri suoi compagni e connazionali emigrati. Sdegnato della condotta della borghesia argentina di allora, compresa non poca di quella di origini italiane, che non soccorreva ne era solidale con gli emigranti appena giunti dall'Italia e dall'Europa, tenne alcune infocate conferenze di gran successo presso la Dante Alighieri di Buenos Aires, che lo resero subito famoso tra gli intellettuali di quella Città. Fu, per un breve periodo, vicedirettore de "La Prensa", il più importante quotidiano argentino, sul quale pubblicava anche i suoi servizi fotografici. Decorò in stile liberty molte ville e teatri dello Stato del Paranà e di Buenos Aires e, lui figlio di un pastore metodista (!), persino il chiostro di qualche convento cattolico attorno a Rosario Santa Fè. Allo scoppio della prima guerra mondiale, tornò in Italia a combattere la "quarta guerra di indipendenza", come proletario e patriota "garibaldino", seguito da altri giovani proletari e patrioti italiani, come lui "garibaldini" e costretti ad emigrare, ma che, andandogli sempre dietro, ritornarono con lui in Patria per combattere. Il suo epistolario dal fronte con la fierissima - e preoccupatissima - madre Tullia evidenzia il suo forte legame intellettuale ed affettivo con lei ma anche la loro reciproca libertà. Fu trai primi componenti del reparto d'assalto degli arditi fondato alla sdricca di Manzano. Ferito due volte gravemente e insignito di medaglia d'argento e di bronzo e di due croci di guerra al valor militare, nell'inverno (Natale e Capodanno) 1916-1917 durante la sua convalescenza presso il castello di Alliè (Torino), divenne amico della famiglia dei Duchi di Genova ai quali lasciò in regalo molti e apprezzatissimi suoi disegni e poi, più tardi nel 1927, del giovane Umberto di Savoia erede al trono. Da allora si mantenne fedele alla monarchia senza rinnegare i suoi ideali garibaldini e mazziniani (il suo motto era: "Libero credi e non servire alcuno"). Fotografo appassionato e ordinatissimo, mandava i suoi "servizi dal fronte" agli amici argentini corredati dalle foto da lui scattate durante la vita di trincea. A rischio d'essere fucilato ha conservato gli archivi delle molte trincee da lui comandate. Documenti di altissima drammaticità e di amor di patria. Da vero soldato che ha combattuto con onore, non fu mai un retore della guerra e non condivise mai l'esaltazione estetica e folle della guerra fatta da Marinetti che fu da lui severamente giudicato con distacco quando, anni dopo, divenne accademico d'Italia. Al contrario divenne fraterno amico di Giacomo Balla che disegnò per lui il gagliardetto per l'Associazione Nazionale Arditi d'Italia, da lui fondata nel 1919, ricamato dalla moglie Elisa su tela di orbace . Famoso, in senso nettamente antiretorico, è un suo scritto, asciutto e lirico nel contempo, su Enrico Toti che giunse, vagando nei luoghi della morte, nella sua trincea e vi rimase fino a quando, pochi giorni dopo essere stato rilevato dal suo superiore bersagliere, morì nell'assalto. Conservò e tradusse, inviandolo al Comando di Brigata che era nelle retrovie, il drammatico diario del comandante boemo di una delle trincee nemiche da lui conquistate e disperso durante il combattimento (alcune settimane prima quell'Ufficiale era arrivato dall'elegante Praga e, in trincea, nel giro di poco tempo si era ridotto in malattia e abbrutito fino all'abiezione). 3 Nel suo Archivio privato è ancora conservato il rilievo, da Lui tracciato, delle due trincee nemiche affrontate che avevano i due "tamburi di comando" distanti fra loro appena 15 metri. Tornato alla vita civile collabora e scrive su Roma Futurista (fu grande amico di Carli e di Settimelli) e, poi, divenuto direttore de L'Ardito (giornale sottoposto a censura e del quale era anche il terribile vignettista), sostenne apertamente l'impresa fiumana di Gabriele D'Annunzio, il Comandante e padre del suo ex compagno di classe, insignendolo, durante la Repubblica del Quarnaro e (sul punto) in polemica più che aperta verso l'atteggiamento, piuttosto prudente e distaccato, di Mussolini, del titolo di Ardito d'Italia. Nel novembre del ‘19, e nel bel mezzo della prima prova elettorale del Movimento Fascista del quale aveva disegnato il logo, fu arrestato per ordine di Francesco Saverio Nitti (la "giustizia politica a orologeria" funzionava bene anche allora) e condivise il carcere nella stessa cella con Mussolini (conservo ancora il cucchiaio di legno che, in tale occasione, fu loro fornito in dotazione quali "galeotti" e le cartoline di conforto inviategli da Mussolini, uscito di carcere qualche settimana prima di lui). Fin dal 1919, aveva giocato e continuò a giocare un ruolo importantissimo di animatore ed equilibratore tra i vari movimenti politici ed artistici che supportavano il nascente fascismo. Ciò fino alla fondazione, all'Augusteo di Roma (il 29 Novembre del 1921) , del PNF e poi a Napoli, nell'ottobre del successivo e decisivo anno 1922, dove, reduce da un memorabile viaggio estivo in Sicilia (ricordato dallo stesso Leonardo Sciascia nei suoi ultimi scritti) divenne amico del Principe Pignatelli, anche lui Ardito, e dove si celebrò il primo Congresso del PNF. In tale occasione organizzò e fu a capo della "Marcia su Napoli" tenutasi pochi giorni prima del 28 ottobre 1922, giorno della "Marcia Su Roma". Poi, più tardi, nel 1924, subito dopo il delitto Matteotti, quando Mussolini (che, pur non essendo stato in alcun modo il mandante del delitto, era tuttavia additato dai suoi avversari, anche di partito, come colui che ne era stato l'imprudente responsabile morale) fu oggetto di durissime attacchi e critiche da parte dei futuristi, dei dannunziani, degli arditi, e persino di molti influenti fascisti e quando, proprio per questo, il neonato Regime rischiò per la prima volta di naufragare. Era stato cofondatore con Mussolini del Fascio primigenio di via Canobbio (del cui Comitato Centrale fu, con Lui, uno dei primi 6 membri) in Milano e ne disegnò il logo già per le elezioni del 1919. Fu, quindi, l’ideatore e il primo disegnatore del fascio littorio come "logo" politico del Partito che, appunto, si chiamò “Fascista”. Prima, però, quel logo era stato da lui proposto come quello del Partito Futurista e poi come logo dell'Associazione Nazionale dei Fasci Italiani di Combattimento. Tale logo fu da lui scelto e proposto - incredibile ma vero - anche perchè il fascio littorio (già evocato in passato dai socialisti dei "Fasci Siciliani") era, ed è ancora, molto popolare ed usato negli Stati Uniti quale simbolo di unità e di libertà che campeggia nel bel centro del Senato americano e del "Campidoglio" di Washington. Fino al '24 fu responsabile della "cultura e propaganda" del partito svolgendo anche la funzione di commissario straordinario del Partito a Genova, nella Lunigiana (dove molti fascisti erano stati uccisi), nel Centro Italia e in Sicilia come inviato a vigilare, con il suo carisma e la sua fama di incorruttibile, sull'evoluzione - assai preoccupante per il precoce inquinamento dovuto all'arrivo di nuovi e troppi opportunisti - delle strutture locali del movimento fascista e ovunque del Paese. Egli ha esercitato una indiscussa (quanto critica) autorità morale sulle migliori intelligenze del futurismo, dell'arditismo, del fascismo e dello stesso dannunzianesimo; fu anche detto il "Saint Just del fascismo". Il suo scritto più importante e - quasi di nascosto - più letto dai fascisti della "prima ora" (ma che Mussolini non volle leggere neppure in bozza) è "I Comandamenti", uscito nei primi anni'30, al giro di boa del Regime dal primo al secondo decennio. Eletto al Parlamento nel 1924, molti avversari - tra questi Orlando e don Sturzo - gli fecero giungere parole di gratitudine, di rispetto. Quando, non addirittura, di ammirazione e di stima. Disprezzava chi infieriva sul nemico. I suoi peggiori nemici furono proprio alcuni fascisti (ma non Mussolini che - pur divenendo con l’andar del tempo nei suoi confronti sempre più altezzoso e distante - sotto sotto, continuava ad ammirarlo, senza osare toccarlo). 4 L'amico, storico e liberale antifascista, Piero Operti gli scrisse: “l'avvento del Regime non ti ha giovato” e sul Travaso delle Idee uscì una vignetta che diceva: “Ecco il Maggior Piero del P.N.F. che trovò la sua fortuna in America mentre molti dei suoi amici l'hanno trovata qui.” Antigentiliano sosteneva che il Fascismo doveva restare immune da ogni filosofume (per questo Formiggini, consentendo con lui, gli aveva regalato, con dedica, una copia della sua famosa "Ficozza Filosofica del Fascismo"). Pur convertitosi al cattolicesimo e universalmente considerato un'"anima" del Fascismo, fu un detrattore convinto (quando non addirittura un ridicolizzatore) della c.d. "mistica fascista" avendo invece Egli, salvi gli ideali e la morale, un'idea etica e pragmatica, ma anti ideologica, della politica.

 Sotto la sua immagine che distribuiva ai suoi sostenitori scrisse: "Ciò che in politica rende angosciati e perplessi non è la diversità delle opinioni ma la diversità di morale" Coerente con il suo legame con gli ambienti futuristi, riteneva essere questo il vero senso della rivoluzione fascista anti ottocentesca o, piuttosto, il vero genio dell'italianità in politica. Riteneva, ancora, che il vero fascismo fosse un fenomeno "inesportabile", che era - e doveva restare - tipicamente italiano. Fu sostenitore degli interventi infrastrutturali (grandi opere) a favore dell'economia e vicepresidente della Cassa Nazionale Infortuni (poi INAIL) dal 1925 al 1933. In tal senso si adoperò anche quale membro laico del Consiglio di Stato e quale deputato per l'Altipiano di Asiago (i Sette Comuni) impegnandosi per la crescita e la tutela delle industrie tessili del vicentino. Diceva che il fascismo doveva avere una forte anima sociale, essere - sotto questo aspetto - una specie di "comunismo bianco". Strinse legami di amicizia con artisti di varie scuole e capiscuola come Balla, Prini, Rutelli, Perosi, Mascagni, Respighi con scrittori, editori, giovani cineasti e storici come Suckert (Malaparte), Formiggini, Freddi, Rava e Piero Operti con uomini dei motori e delle ali come Enzo Ferrari, Giacomo Acerbo, Arturo Ferrarin, Italo Balbo e con giuristi ed economisti come Arangio Ruiz, Filippo Ungaro, Piero Pisenti (che fu suo amico ed estimatore per la vita e poi ministro di Grazia e Giustizia della Repubblica di Salò) e Alberto De Stefani (conservo, inoltre, gli auguri scherzosi di Maffeo Pantaleoni a mio Nonno quando, nel '23, nacque mia madre). Scomodo per il Regime ma, come già sopra accennato, inattaccabile da Mussolini che, malgrado i frequenti e ripetuti scontri con lui, doveva sopportarlo (forse anche in fraterna memoria del carcere condiviso insieme nel 1919 a Milano), continuò ad essere punto di riferimento politico e morale (pur dopo la sua apparente eclissi negli anni '30 ) di uomini quali Italo Balbo e Dino Grandi, di giovani intellettuali e fascisti "critici" quali Piero Fanelli ed Asvero Gravelli, di "corporativisti" come Cianetti (con lui delusi dall'invadenza sempre più paralizzante dei funzionari e burocrati di partito), di ex combattenti, di militari, di cittadini non iscritti al P.N.F. e di tutti quelli, Ciano escluso, che poi furono fucilati a Verona. Con Bottai, invece, ebbe rapporti più freddi. Con Farinacci, poi, addirittura dichiaratamente ostili. Nel '26 fu nominato sottosegretario alle Colonie. In tale veste ricevette il titolo di Leone di Etiopia direttamente dall’imperatrice Zauditù, la "neghiste neghesti" - la "Regina dei Re"-, madre di Hailé Selassié) e strinse amicizia con il il nobile libico Hassuna Karamanli (grande estimatore dell'Italia). Egli era convinto che, già alla fine della “prima Guerra Europea” (così si chiamava allora loa Prima Guerra Mondiale), l'imperialismo ottocentesco degli "Imperi Occidentali" era al tramonto e che meglio sarebbe stata una politica italiana di penetrazione commerciale e culturale "au paire" con gli stati e le popolazioni asiatiche e africane, in concorrenza lungimirante contro la persistente e decadente politica coloniale "rapinatoria" di Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda e...Stati Uniti. Come già sopra accennato,nel 1921 e soltanto dopo la morte della madre (il padre era morto mentre lui era in Argentina), si era accostato alla confessione cattolica e aveva sposato una signorina di Genova, Maria Teresa Parodi-Canobbio, detta "Ninì", colta figlia - non ricca ma benestante- di un probo avvocato genovese e di una signora italo-messicana (religiosissima quanto aperta di idee). Fu un grandissimo amore. Conobbe così, e divenne amico, di grandi anime del cattolicesimo di allora; tra questi, padre Tacchi Venturi e il cardinale Merry del Val che battezzò la figlia Loletta, mia madre. 5 All'esercizio del suo permanente potere morale, "underground" e discreto, si deve, tra l'altro, se nel '39 (anno della proclamazione di Santa Caterina quale Patrona d’Italia) e poi nel 1943 - mentre il fascismo era inghiottito dal nazismo e l’Italia si avviava alla disfatta - venne dato, per ben 2 volte, e in evidente polemica con gli eventi, il premio Savoia Brabante al cattolico Igino Giordani, che, tra i fondatori del Partito Popolare non fu mai nè fascista, nè simpatizzante, nè tantomeno - come invece lo furono il La Pira, ancora nel 1938 titolare di cattedra a Firenze di Storia del Diritto Romano, e altri cattolici già vicini a Don Sturzo - fiancheggiatore del Regime. Mio Nonno volle premiarlo per i suoi scritti sul pensiero sociale di Gesù, degli Apostoli e dei Padri della Chiesa, dal Giordani pubblicati come risposta all’approvazione delle leggi razziali . Lo stesso premio, nel '36, lo aveva fatto dare al liberale Operti (poi combattente partigiano) che era intervenuto per difendere alcuni amici Torinesi che si erano rifiutati di iscriversi al P.N.F. Nel '39 Guido Piovene (già all'epoca noto per aver difeso in passato l'idea comunista) gli fece giungere da Vicenza una lettera di elogio (per lui e per Alberto de Stefani) rammaricandosi che il Regime oscurasse intelligenze ed anime di tanto spessore. Nominato Consigliere di Stato, si estraniò progressivamente dalla vita politica attiva. Continuò tuttavia a contrastare le leggi razziali e la dichiarazione di guerra del '40 accanto ai nazisti (contro la quale si pronunciò con un suo intervento in aula, assieme al generale Baistrocchi, nella stessa Camera dei Fasci e delle Corporazioni). Nell'Agosto del 1938, alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, aveva fatto parte della delegazione italiana alla trentaquattresima Conferenza Interparlamentare dell'Aia, assenti tedeschi e giapponesi, e nel suo taccuino aveva annotato: "Di tutte le potenze autarchiche siamo presenti solo noi italiani. Meglio soli che in cattiva compagnia". Del resto, fin dal 1932, pubblicamente e in aperto disaccordo con Mussolini, si era rifiutato di appoggiare l'astro nascente di Hitler e del Nazionalsocialismo ad opera (questo è a tutti noto, ma… non andrebbe detto!) delle Cancellerie inglesi e francesi che nel 1932 e 1933 sostenevano Hitler in funzione tanto antisovietica quanto antitaliana. A tal proposito mio Nonno incoraggiò e ispirò, tra il 1932 e il 1936, una serie di pubblicazioni antinaziste e antirazziali – curate e pubblicate da giovani “intelligenze” fasciste, quali erano Piero Fanelli e Asvero Gravelli, sulla Rivista Fascista dal titolo singolarmente attuale: "Antieuropa". Nel 1943, dopo la caduta del Regime e la fuga di Mussolini al Nord, si rifiutò di appoggiare la Repubblica di Salò – che vedeva ormai tardiva ed inutile, nello scenario fosco del Centro-Nord italiano, e destinata ad essere soltanto strumento e parte di una sanguinosa Guerra Civile – e dichiarò, nel corso di un memorabile quanto tragico colloquio (avvenuto a Roma, in un giorno di fine estate di quello stesso terribile anno), al suo, pur amatissimo amico friulano, Piero Pisenti - grande giurista che, padre, poi dimenticato, dell'attuale Codice Civile, era destinato a diventare Ministro di Grazia e Giustizia della RSI - che egli non voleva esser parte in uno scontro fratricida e preferiva vedere le industrie del Nord distrutte dai bombardamenti Tedeschi e Americani, piuttosto che vedere distrutta, per sempre, l'anima del suo popolo, infaustamente alleato e sepolto con Hitler (disse all’amico: "Le industrie e le città bombardate dal nemico, chiunque egli sia, si ricostruiscono; i patrioti e gli ideali, morti o traditi, no"). Non ebbe mai, ne prima ne dopo il 25 aprile di quell’anno luttuoso, in simpatia Pietro Badoglio, che giudicava un opportunista. Pur delusissimo e distrutto dall'avverarsi di ciò che aveva previsto e temuto, non volle mai rinnegare pubblicamente il suo passato, ne collaborare con alcuno degli invasori. Nell'inverno del 1945, anno della sua morte, rifiutò la proposta degli Alleati, entrati a Roma, di far parte del governo provvisorio dell'Urbe, dichiarata "Città aperta". Come poi mi disse mio padre, ancora con viva emozione e trenta anni dopo a Manila, il netto e dignitoso rifiuto di collaborazione da parte di mio Nonno fu motivo di grande ammirazione da parte del, quasi incredulo, ufficiale inglese, latore della proposta alleata e che mio padre volle presentare a mio nonno, ormai gravemente infermo. L’ufficiale inglese scattò sull’attenti, fece il saluto, si tolse il guanto della mano destra e chiese l’onore di “stringere la mano di un vero senatore italiano”. 6 Durante l'occupazione nazista, mio Nonno aveva collaborato soltanto con il Vaticano per salvare e proteggere molti ebrei che vivevano a Roma. Non era stato, dunque, un caso che mio padre (spia olandese ma di genitori ebrei viennesi, giunto nel 1940, come poi si seppe, a Roma direttamente da Londra dove si era rifugiato dopo l'occupazione nazista di Parigi, con il compito di introdursi, come controspia, nell'ambiente delle spie naziste da tempo operanti a Roma) in quel periodo cercasse di avvicinare e , introducendosi in casa Balla attraverso la frequentazione del mondo degli artisti romani, riuscisse a conoscere mia madre presentandosi come dipendente e collaboratore, quale egli in effetti era riuscito a diventare, di Werner von der Schulenburg, brillante quanto gelido nobile austriaco, il quale, pur proclamandosi ed essendo noto in Roma come un austriaco antinazista, era, invece, una spia al servizio di Hitler. Egli, mio Nonno, a chi poi lo processò, tra il 1944 e il 1945, nel corso del giudizio di epurazione al Senato cui fu sottoposto, disse di sè stesso - a sua convinta discolpa - di aver cercato d'essere sempre e soltanto "un italiano". Ritenuto figura altamente simbolica depositaria di molti segreti (e perciò pericolosa) fu egualmente epurato dal Senato (ma non dal Consiglio di Stato), pur non essendo stato trovato colpevole di nulla. Il suo cuore impavido e malato cessò di battere nel novembre del 1945. Morì di crepacuore, affranto dal dolore. Prima di morire disse: "Signore Ti ringrazio per ciò che mi hai dato e per ciò che mi togli". Morì senza ricchezze (durante il Ventennio portò sempre, con eleganza, lo stesso cappotto e visse in affitto senza accumulare beni e denaro). Mi ha lasciato il suo Archivio ed una piccola casa di famiglia, in campagna, a Gavi nell'Oltregiogo ligure, da lui interamente affrescata tra il '39 e il '42 dove si era ritirato allontanandosi dalla politica attiva. In una stanza è scritto: “Ama la tua fatica” e in un'altra: “Solo nella libertà l'anima è intera”. Lì è il mio rifugio dal quale posso guardare, come dicono i miei fratelli ebrei, “ Il Cielo dall'Alto” 

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