giovedì 20 agosto 2020

Guida scettica alla Modern Monetary Theory Di N. Gregory Mankiw


Is United States Deficit Policy Playing with Fire?




Gregory Mankiw è uno dei principali macroeconomisti americani, autore - tra l’altro - di uno dei più autorevoli manuali di macroeconomia (“Principles of Economics”, Cengage) giunto alla sua nona edizione L’autore ringrazia Laurence Ball, Denis Fedin, Rohit Goyal, Charles Linsmeier, Deborah Mankiw, Jane Tufts e Nina Vendhan per i loro suggerimenti. 


Presentato al Convegno Annuale dell’American Economic Association (AEA), Gennaio 2020 Titolo sessione: Is United States Deficit Policy Playing with Fire?. Copyright American Economic Association; riproduzione autorizzata da AEA Papers and Proceedings. 

Nell’ultimo anno, l’attenzione dei media si è molto concentrata su un nuovo approccio alla macroeconomia, identificato dai suoi sostenitori col nome di Teoria monetaria moderna, ma che indicheremo con l’espressione inglese Modern Monetary Theory (MMT), forse più familiare ai lettori italiani. 

Il debutto della MMT sulla scena della discussione macroeconomica è stato per la verità alquanto inconsueto: un nome così altisonante porterebbe a pensare che sia nata in seno alle migliori università, tra eminenti studiosi impegnati a dibattere le più sottili elucubrazioni della materia, ma non è così. 

La MMT si è invece sviluppata in una nicchia del mondo accademico, per poi balzare alla ribalta delle cronache solo grazie all’endorsement di alcuni politici di spicco – soprattutto il senatore Bernie Sanders e la deputata di New York, Alexandria Ocasio-Cortez –, che hanno trovato nei suoi principi una dottrina conforme alle loro posizioni. 

Se una simile evoluzione sarebbe già di per sé sufficiente a giustificare tanto il mio scetticismo quanto quello dei colleghi accademici verso questa Teoria, d’altra parte non si può dire che ciò rappresenti una base sufficiente per rigettarla, dato che anche le idee che si sviluppano in maniera poco convenzionale possono rivelarsi corrette. 

È per questo motivo che negli ultimi tempi ho cercato di capire di cosa si tratti, identificando le differenze principali tra la Teoria monetaria moderna e l’approccio solitamente proposto dai manuali di macroeconomia come il mio.

 Per mia fortuna, lo strumento ideale per farlo esisteva già: si tratta di un manuale pubblicato nel 2009 dalla Red Globe Press, intitolato semplicemente Macroeconomics e scritto da tre sostenitori della MMT, cioè William Mitchell e Martin Watts della University of Newcastle, Australia, e L. Randall Wray, del Bard College. 

In questo breve saggio esporrò cosa ho scoperto sulla Modern Monetary Theory dalla lettura di questo libro.

Devo ammettere che il compito di estrapolare i principi della MMT mi è risultato inizialmente esasperante, in quanto rimanevo spesso incerto su quale fosse l’esatto significato di ciò che stavo leggendo, ma mi preme altresì sottolineare che la colpa delle difficoltà che ho incontrato potrebbe benissimo essere mia. 

Del resto, è probabile che, dopo quarant’anni di carriera nell’ambito della macroeconomia mainstream, quella mentalità sia in me troppo radicata per poter comprendere appieno tutte le sfumature della MMT e lo dico per controbattere anticipatamente l’obiezione che i suoi sostenitori potrebbero muovermi, nonché per affermare che quanto segue altro non è che la mia genuina valutazione della Teoria, a cui sono giunto attraverso un sincero sforzo di comprenderla. 

La Teoria monetaria moderna si sviluppa a partire dai limiti imposti al bilancio a cui è sottoposto il Governo in un regime di moneta a corso legale. 

Secondo Mitchell,  l’approccio comune, che si basa sulla relazione tra il valore attuale del gettito fiscale e quello della spesa e del debito pubblico, è fuorviante. 

Come scrivono gli autori, «La conclusione più importante a cui la MMT è arrivata è che l’emittente di una valuta non è soggetto ad alcun vincolo finanziario. Più semplicemente, un Paese che emette la propria moneta non può mai risultarne sprovvisto, né può trovarsi in una situazione d’insolvenza se i suoi debiti sono denominati in quella stessa valuta: questo paese può fronteggiare qualsiasi pagamento quando questo giunge a scadenza».

 Di conseguenza, «per la maggior parte dei governi non si pone il rischio del default del debito sovrano».

 Nel leggere tali affermazioni, la mia reazione oscilla tra un blando consenso e un’energica opposizione.

Il fatto che un governo che emette moneta abbia la capacità di stamparne di più se a ridosso di un pagamento in scadenza è ovvio, e questo sembrerebbe esentarlo da qualsiasi tipo di vincolo finanziario, com’è anche vero che se a un individuo venisse consentito l’accesso alla zecca dello Stato, la limitatezza dei suoi mezzi diventerebbe una questione molto meno pressante. 

Tuttavia, sono abbastanza riluttante all’idea di applicare i termini di una simile conclusione anche nei riguardi di un governo nazionale, per tre motivi specifici. 

Primo, in un sistema come quello attuale, in cui gli interessi si pagano sulle riserve, la moneta addizionale che uno Stato volesse stampare per far fronte a una scadenza finirebbe con tutta probabilità nel sistema bancario proprio sotto forma di riserve, sulle quali sempre lo Stato (attraverso la banca centrale) si troverebbe poi a dover pagare degli interessi. ( Ndr : si cedono titoli alle banche in cambio di denaro )

Nei fatti ciò significa che, anche quando un Paese decidesse di stampare moneta per coprire un pagamento, si tratterebbe comunque di un prestito. 

La moneta può rimanere sotto forma di riserve per sempre, ma gli interessi maturano nel tempo. 

Un sostenitore della MMT potrebbe rispondere che basterà stampare ancora più moneta per coprirli, ma bisogna considerare il fatto che una base monetaria “a espansione perpetua” avrebbe ulteriori ramificazioni: la domanda aggregata aumenterebbe, grazie all’ “effetto benessere”, finendo con l’innescare inflazione. 

Secondo, se gli interessi sulle riserve non sono sufficienti, l’espansione della base monetaria determinerà l’aumento dell’accesso al credito e della massa monetaria. 

Il tasso d’interesse sarà quindi costretto a diminuire per indurre le persone a trattenere la massa monetaria ampliata, stimolando nuovamente un incremento della domanda aggregata e dell’inflazione. 

Terzo, l’aumento del tasso d’inflazione riduce la quantità reale di moneta richiesta.

Infatti, questo crollo dei saldi reali di valuta riduce di conseguenza anche il flusso di risorse reali che un governo può rivendicare nel momento in cui crea moneta. 
Con buona probabilità, esiste una Curva di Laffer anche per i redditi da signoraggio: uno Stato che agisce come se non avesse alcun tipo di vincolo finanziario potrebbe venire ben presto a trovarsi sul lato sbagliato della curva e quindi nella situazione in cui la sua capacità di stampare moneta avrebbe ben poco valore al margine. 

( Ndr sulla   Curva di Laffer :


La curva di Laffer è una curva che mette in relazione l'aliquota di imposta con le entrate fiscali. Fu impiegata da Arthur Laffer, economista dell'University of Southern California per convincere l'allora candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1980, Ronald Reagan, a diminuire le imposte dirette.)

In una situazione di questo genere e nonostante ve ne sia la possibilità, un governo può comunque decidere che dichiarare default sia un’opzione migliore rispetto allo stampare moneta e non perché il default sia inevitabile, ma perché sarebbe comunque preferibile all’iperinflazione. 

Quest’argomento ci porta quindi a ragionare sulla teoria dell’inflazione

Quello che ho adottato finora è il punto di vista convenzionale, cioè quello motivato dalla Teoria quantitativa della moneta, secondo il quale creare nuova moneta a ritmi sostenuti ha un effetto inflazionistico. 
I sostenitori della MMT contestano tale conclusione, sostenendo che «non esiste una relazione proporzionale tra l’aumento dell’offerta di moneta e l’aumento del livello generale dei prezzi».

Tale affermazione però sopravvaluta le critiche all’opinione condivisa in materia. 

Secondo i dati decennali americani registrati dal 1870, la correlazione tra l’inflazione e la crescita monetaria è pari a 0,79 e una simile forte tendenza si è registrata anche in analisi comparative tra i dati di diversi paesi.

Ciononostante, anche i macroeconomisti mainstream si spingono oltre il semplice ragionamento teoretico-quantitativo. 

Essi sottolineano il fatto che la domanda può essere instabile, che la distinzione tra asset monetari e non-monetari presenta delle non trascurabili difficoltà in un mondo in cui l’innovazione finanziaria procede a ritmo sostenuto, che la previsione di una crescita monetaria può influenzare il tasso d’inflazione presente se c’è una tendenza diffusa a guardare al futuro e che esiste anche un variegato insieme di fattori che trascendono la politica monetaria e che hanno la capacità di influenzare sia la domanda aggregata che l’inflazione. 

Tali studiosi ammettono inoltre che, date le regole attualmente in vigore, le banche centrali cercano di gestire i tassi d’interesse nel breve termine e l’inflazione sul lungo periodo e che gli aggregati monetari giocano un ruolo minore: tutti questi assunti però elaborano ulteriormente la teoria quantitativa della moneta anziché confutarla. 

La MMT, invece, propone l’adozione di un approccio molto diverso all’inflazione. 

Come affermano i suoi esponenti, « La teoria del conflitto identifica l’inflazione come un problema intrinseco alle relazioni di potere tra i lavoratori e il capitale (lotta di classe), che nei sistemi capitalisti vengono mediate dal governo».

Ciò sta a significare che l’inflazione va fuori controllo nel momento in cui lavoratori e capitalisti lottano rispettivamente per aggiudicarsi una porzione più ampia del reddito nazionale. 

Secondo questa interpretazione, le politiche dei redditi, come possono essere le linee guida governative sui salari e sui prezzi, rappresentano una soluzione applicabile in caso di alti tassi d’inflazione e i proponenti della MMT vedono infatti in questi provvedimenti – e persino nell’imposizione diretta da parte dello stato dei livelli di prezzi e salari – lo svolgimento del ruolo di uno Stato arbitro tra le parti del conflitto di classe.

D’altro canto, le teorie mainstream dell’inflazione pongono l’accento non sulla lotta di classe, bensì su quell’eccessiva crescita nella domanda aggregata che spesso deriva proprio dalla politica monetaria. 

Si tratta di un concetto presente anche nella MMT, la quale ammette che «qualsiasi spesa, pubblica o privata che sia, diventa inflazionistica nel momento in cui spinge il valore nominale della domanda aggregata al di là della capacità dell’economia di assorbirla». ( Ndr : quando la produzione non è adeguata )

I sostenitori della MMT, tuttavia, sembrano fare di questa contingenza una lontana ipotesi più che una possibilità reale e ci informano inoltre del fatto che «la piena occupazione viene raggiunta solo di rado nelle economie capitaliste e dal momento che le economie spesso operano in una situazione in cui la capacità produttiva non è interamente impiegata, spesso a fronte di alti tassi di disoccupazione, risulta difficile continuare a sostenere l’opinione secondo la quale le aziende non avrebbero alcun margine per espandere il prodotto reale in presenza di un aumento nella domanda nominale aggregata». 

A rischio di passare per il proverbiale ragazzo che scambia tutto per un chiodo, perché ha in mano un martello, concedetemi di collegare questa osservazione della MMT con le conclusioni date dalla ricerca mainstream dei new-keynesiani, alla quale io stesso ho in parte contribuito in passato. 

Cominciamo col riprendere gli studi sul disequilibrio generale degli anni Settanta.

Queste teorie partono dall’assunto che prezzi e salari siano dati, con l’intento di comprendere come il meccanismo d’allocazione delle risorse operi in uno scenario in cui le forze di mercato non riescono a riportare l’equilibrio tra domanda e offerta. 

Secondo queste teorie, l’economia può trovarsi in uno qualsiasi tra molti regimi possibili, a seconda di quali siano i mercati in cui si registra un eccesso di offerta e quali invece siano caratterizzati da un eccesso di domanda. 

Il più interessante fra questi è forse il cosiddetto “regime Keynesiano”, in cui si riscontra un eccesso di offerta sia sul mercato del lavoro che su quello dei beni. 

In questo regime, la disoccupazione si presenta perché la domanda di lavoro è insufficiente a garantire la piena occupazione al livello corrente dei salari, la domanda di lavoro è bassa perché le aziende non possono vendere ciò che vogliono ai prezzi correnti, mentre la domanda per i prodotti delle aziende è inadeguata perché molti consumatori sono disoccupati.

Le recessioni, insomma, sono il risultato di un circolo vizioso dettato dall’insufficienza della domanda

Saltiamo adesso al decennio seguente. 

Dal momento che buona parte della scuola keynesiana si è basata sull’assunto che prezzi e salari non riescano ad equilibrare i mercati, i suoi successori, i new-keynesiani degli anni Ottanta, provano quindi ad approfondire l’aggiustamento dei prezzi e dei salari. 

I loro studi esplorano varie ipotesi: 

1) che le aziende che possiedono un certo potere di mercato incorrano nei cosiddetti costi d’adeguamento (menu costs) nel momento in cui decidono di cambiare i propri prezzi, 

2) che le aziende paghino ai propri dipendenti degli stipendi più alti rispetto al livello di equilibrio del mercato per stimolarne la produttività, 

3) che prezzi e salari si discostino dalla perfetta razionalità e che 

4) esistano dei rapporti di complementarità tra rigidità reali e nominali.

 C’è una relazione evidente ma molto spesso trascurata tra queste due linee di ricerca del new-keynesismo, soprattutto se si considerano i lavori più recenti sulla formazione dei prezzi e dei salari come una riconferma del regime keynesiano evidenziato nei precedenti studi sul disequilibrio. 

Quando le aziende hanno un potere di mercato stabiliscono prezzi superiori ai costi marginali e questo le spinge invariabilmente a cercare di vendere volumi maggiori di prodotti ai prezzi correnti. 

In un certo senso, se la maggior parte delle aziende esercita una qualche misura di potere di mercato, ne consegue che il mercato dei beni si troverà in una situazione di eccesso d’offerta. 

Tale teoria sul mercato dei beni è spesso accompagnata da quella su un mercato del lavoro in cui gli stipendi sono al di sopra del livello d’equilibrio, come nel caso della teoria dei salari d’efficienza. 

Di conseguenza, il regime keynesiano che prevede un generale eccesso sul lato dell’offerta non sarebbe solo un possibile risultato per l’economia, ma la sua conseguenza tipica. 

Questo filo logico mi riconduce alla MMT: la conclusione per la quale «le economie spesso operano in una situazione in cui le proprie capacità produttive non sono interamente impiegate» può essere interpretata come l’affermazione del fatto che le economie si trovano generalmente nelle condizioni, previste dal regime keynesiano, d’eccesso generalizzato dell’offerta, ed è in questo senso che il neo-cartalismo sarebbe quindi affine all’analisi neokeynesiana.  ( Ndr Il cartalismo è una teoria economica sviluppata dall'economista tedesco Georg Friedrich Knapp,[1][2] con l'importante contributo di Alfred Mitchell-Innes.
Il termine "cartalismo" deriva dall'inglese chartalism in lingua inglese, che a sua volta deriva dal latino charta cioè "carta", in attinenza alla natura della moneta cartacea prevista nel sistema della moneta a corso legale e in contrapposizione con la teoria monetaria del metallismo.
La teoria è stata ripresa negli ultimi anni dall'economista statunitense Warren Mosler come fondamenta della teoria post-keynesiana della moneta moderna. )

Giunti a questo punto, vale la pena di operare una distinzione tra il livello naturale di produzione e d’occupazione e quello ottimale. 

Il livello naturale è quello in cui l’economia si trova nella media e intorno al quale tende a gravitare nel lungo periodo, mentre il livello ottimale è quello che porta a massimizzare il benessere sociale. 

Quando la norma è rappresentata dall’eccesso sul versante dell’offerta, dovuta alla prevalenza del potere di mercato, va da sé che il livello naturale si trovi al di sotto di quello ottimale. 

L’inflazione tende ad aumentare quando produzione e occupazione superano i propri livelli naturali, anche quando questi rimangono al di sotto del livello ottimale; dopotutto, il fine di coloro che determinano il livello dei prezzi non è la massimizzazione del benessere pubblico ma di quello privato, attraverso il raggiungimento dei loro obiettivi in termini di maggiorazioni sui prezzi al di sopra dei costi marginali. 


È su questo punto che l’opinione degli economisti della MMT si discosta da quella dei new-keynesiani. 

Un esponente della MMT potrebbe infatti sostenere che i decisori politici dovrebbero mirare al livello ottimale: se gli agenti che stabiliscono i prezzi ostacolano il raggiungimento di quell’obiettivo aumentando i prezzi, i regolatori possono porvi rimedio imponendo delle indicazioni sul livello dei prezzi o controllandoli direttamente.
(Ndr : quello che in Italia non è stato fatto nel 2001 al momento dell' introduzione dell' euro )

Un new-keynesiano può ammettere che, in una situazione di prevalenza di potere di mercato, lasciare che i prezzi siano stabiliti da soggetti privati può non essere la migliore soluzione possibile (la cosiddetta “first-best”). 

Tuttavia, sebbene coinvolgere lo Stato nel processo di determinazione dei prezzi possa migliorare l’allocazione delle risorse se si considera il problema da un punto di vista puramente teorico, sia la complessità dell’economia che l’esperienza storica in materia di prezzi amministrati ci dicono che non si tratta di una soluzione praticabile. 

In conclusione, la mia esplorazione della MMT mi ha portato a scoprire un terreno comune tra i suoi sostenitori senza per questo dover tirare una somma di tutte le loro più radicali conclusioni: certamente un governo può sempre avvalersi dell’emissione di nuova moneta per assolvere ai suoi pagamenti, ma ciò non lo solleva dalle responsabilità intertemporali sulla tenuta dei conti


È certamente vero che l’economia opera normalmente in condizioni di eccesso di capacità, nel senso che sovente i suoi livelli di produzione non sono ottimali, ma tale conclusione non significa affatto che i responsabili politici non debbano quasi mai preoccuparsi delle spinte inflazionistiche. 

È inoltre condivisibile l’opinione per la quale, in una situazione in cui predomina il potere di mercato, il controllo pubblico sui prezzi possa affinare quello privato in un’ottica puramente teorica, ma tali deduzioni non implicano che uno Stato reale, in un’economia come quelle effettivamente esistenti, possa incrementare il livello di benessere entrando a gamba tesa nei meccanismi di fissazione dei prezzi. 

Detto in parole povere, la Teoria monetaria moderna contiene un germe di verità, ma le raccomandazioni politiche scaturite dalle sue più recenti conclusioni non rappresentano un valido sviluppo delle sue premesse di base.

 IBL Occasional Paper L’Istituto Bruno Leoni (IBL), intitolato al grande giurista e filosofo torinese, nasce con l’ambizione di stimolare il dibattito pubblico, in Italia, promuovendo in modo puntuale e rigoroso un punto di vista autenticamente liberale. 

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Si ringrazia  Istituto Bruno Leoni – Piazza Cavour 3 - 10123 Torino

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